Immunità a Covid-19. Chi protegge di più: l’infezione naturale o il vaccino

Lo studio

Immunità a Covid-19. Chi protegge di più: l’infezione naturale o il vaccino

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Immagine: Administración del Principado de Asturias, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
di redazione
Uno studio su Nature coglie le differenze tra gli anticorpi dell’ l’infezione e quelli dei vaccini a mRNA. I vaccini inducono un maggior numero di anticorpi circolanti ma una risposta meno articolata delle cellule B della memoria. Chi ha avuto Covid-19 e si è vaccinato ha fatto bingo

Sono più forti gli anticorpi prodotti dall’infezione da Sars-Cov-2 o quelli indotti dal vaccino? È uno dei casi in cui potrebbe funzionare il classico espediente della “risposta breve” e della “risposta lunga”. Ma la risposta breve non può essere brevissima, perché c’è il timore che possa essere male interpretata. Così i ricercatori della Rockfeller University scelgono l’unica sintesi possibile per riassumere i risultati del loro studio pubblicato su Nature: la risposta immunitaria successiva all’infezione è più duratura e differenziata rispetto a quella innescata dai vaccini, ma i rischi della malattia restano di gran lunga superiori al vantaggio immunitario. Il che, se fosse necessario specificarlo, vuol dire che non ha alcun senso rinunciare a vaccinarsi con l’idea che se ci si ammala ci si protegge di più, perché i danni che può fare Covid-19 non vengono certo riparati con gli anticorpi ottenuti, per quanto robusti, numerosi e vari possano essere.  

«Anche se un'infezione naturale può indurre la maturazione di anticorpi con un'attività più ampia rispetto a un vaccino, un'infezione naturale può anche ucciderti. Un vaccino non lo farà e, di fatto, protegge dal rischio di malattie gravi o morte», dice Michel C. Nussenzweig, a capo del Laboratorio di Immunologia molecolare della Rockfeller University. 

I ricercatori hanno messo a confronto le difese prodotte per via naturale con quelle stimolate dai vaccini a mRna, scoprendo che la differenza principale sta nell’andamento delle cellule B della memoria. La vaccinazione produce maggiori quantità di anticorpi circolanti, quelli “passeggeri” che calano nel tempo, rispetto all'infezione naturale, ma induce una risposta meno efficace per quanto riguarda la cellule B della memoria.  

A differenza del tipo di anticorpi “passeggeri”, che si impennano subito dopo l’infezione o il vaccino e sono destinati a svanire nell’arco di qualche mese, le cellule della memoria sono stanziali, possono restare nell’organismo anche per decenni. 

Si stima, per esempio, che le cellule B della memoria del vaiolo durino almeno 60 anni dal vaccino e quelle dell’influenza spagnola arrivino a cento anni. Si tratta di uno scudo protettivo magari non perfetto perché non è detto che sia in grado di impedire l’infezione, ma senz’altro prezioso perché riduce il rischio di malattia grave. 

Ebbene, l’infezione naturale induce le cellule B della memoria a lavorare ed evolversi in continuazione per almeno un anno. In quest’arco di tempo le cellule B producono anticorpi sempre più forti e di una gamma sempre più ampia capaci di proteggere dalle varianti del virus più temute. Le cellule B indotte dai vaccini invece evolvono solo per poche settimane e non arrivano a produrre quell’offerta ampia di anticorpi garantita dall’infezione. 

A questi risultati, i ricercatori sono giunti confrontando i campioni di sangue di pazienti convalescenti da Covid-19 con quelli di persone vaccinate con vaccini a mRna che non erano mai stati infettati. 

Dall’analisi è emerso che la vaccinazione e l’infezione attivano lo stesso numero di cellule B della memoria. Nel caso dei vaccini si è osservato che le cellule B della memoria si erano evolute rapidamente tra la prima e la seconda dose producendo anticorpi della memoria sempre più potenti. Ma dopo due mesi, i progressi si interrompevano. Le cellule B della memoria indotte dai vaccini restavano presenti in gran numero in compagnia degli anticorpi che avevano prodotto, ma questi anticorpi non diventavano più forti e non aumentavano nella varietà. Al contrario, le cellule B dei pazienti convalescenti continuavano a progredire e a migliorare l’offerta di anticorpi dopo un anno dall’infezione. 

Ci sono diverse ragioni che possono spiegare come mai le cellule B della memoria prodotte dall'infezione naturale superino quelle prodotte dai vaccini mRNA, dicono i ricercatori.

È possibile che l’organismo risponda in maniera diversa ai virus che entrano attraverso le vie respiratorie rispetto a quelli che vengono iniettati nella parte superiore delle braccia. Potrebbe anche darsi che il virus intatto stimoli il sistema immunitario in misura maggiore rispetto alla sola proteina spike introdotta con i vaccini. Infine, forse la differenza nella risposta immunitaria dipende anche dal fatto 

che il virus rimane più a lungo in circolo nelle persone infette dando all’organismo più tempo per organizzare una difesa efficace. Il vaccino invece viene espulso dal corpo pochi giorni dopo aver attivato la risposta immunitaria desiderata.

In conclusione, i ricercatori avvertono che dai vaccini a mRna non ci può aspettare un’evoluzione duratura delle cellule B della memoria. Con la dose booster dei vaccini attualmente disponibili si riuscirebbe a indurre le cellule B a produrre anticorpi circolanti che sono fortemente protettivi contro il virus originale e un po’ meno contro le varianti. 

«Quando somministrare il booster dipende dall’obiettivo del booster. Se l'obiettivo è prevenire l'infezione, la dose aggiuntiva dovrà essere effettuata dopo 6-18 mesi a seconda dello stato immunitario dell'individuo. Se l'obiettivo è prevenire gravi malattie, la terza dose potrebbe non essere necessaria per anni», afferma Nussenzweig. 

Da tutto ciò si deduce comunque che chi ha avuto Covid-19 e si è vaccinato ha fatto bingo dal punto di vista delle difese immunitarie avendo ottenuto il maggior numero e la maggiore varietà di anticorpi possibile.