Quattordici mesi per accedere alle cure sono troppi. Servono nuovi modelli
L’Italia è diciottesima in Europa per spesa in ricerca e sviluppo, con l’1,33% in rapporto al Pil (l’obiettivo nell’Unione Europea è il 3%), ma, anche con poche risorse a disposizione, il valore della produzione scientifica del nostro Paese è ai vertici a livello internazionale. L’Italia, infatti, è responsabile del 31% dei 2.169 studi autorizzati in Europa nel 2022. Resta, però, il nodo cruciale dei ritardi nell’accesso alle nuove terapie: oggi, tra l’autorizzazione a livello europeo e la rimborsabilità a livello nazionale, trascorrono circa 14 mesi (424 giorni), un valore in linea con quello medio europeo (432 giorni per UE-13+Inghilterra) e migliore rispetto a Francia (527) e Spagna (661), ma nettamente peggiore della Germania (126), che è la più rapida nel rendere disponibili le nuove terapie.
Servono, da un lato, più risorse da destinare alla ricerca scientifica, dall’altro nuovi modelli per velocizzare l’accesso all’innovazione: sono queste, in sostanza, le richieste della Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi (Foce) dal Convegno che si è svolto giovedì 21 novembre a Roma.
In Italia, gli studi clinici autorizzati nel 2022 sono stati 663 e ogni anno sono circa 40 mila i cittadini coinvolti nelle sperimentazioni. Due terzi dei trial interessano le neoplasie, le malattie ematologiche e cardiovascolari, che tra l’altro producono i due terzi della mortalità annuale. Ma il nostro Paese «investe ancora troppo poche risorse in quest’area» sottolinea Francesco Cognetti, presidente Foce: la spesa dell’Unione europea per ricerca e sviluppo ha raggiunto nel 2022 i 352 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto al 2012. I Paesi che investono più risorse, con percentuali superiori al 3% sul Pil, sono Belgio (3,44%), Svezia (3,40%), Austria (3,20%) e Germania (3,13%). L’Italia è diciottesima e non arriva all’1,5%: nel 2021 aveva investito l’1,43%, nel 2022 solo l’1,33%.
«Inoltre – continua Cognetti - il tempo medio richiesto per l’autorizzazione di un nuovo farmaco in Italia è di circa 14 mesi, a cui si sommano ulteriori periodi necessari per l’inclusione nei Prontuari terapeutici regionali. Questo passaggio deve essere eliminato perché rappresenta un oltraggio all’articolo32 della Costituzione. Il ritardo, infatti, può arrivare fino a quasi due anni, un intervallo che risulta eticamente insostenibile, anche se in linea con i tempi medi che si registrano a livello europeo. Devono essere definiti nuovi modelli – sostiene il presidente Foce - per rispondere alle esigenze dei pazienti. Una via può essere rappresentata da un miglior utilizzo delle risorse del Fondo dei farmaci innovativi, che negli ultimi anni non sono state usate in modo completo».
Nel nostro Paese i tempi di approvazione delle nuove molecole «sono leggermente migliori della media europea, ma siamo impegnati a ridurli per rendere disponibili le terapie innovative più rapidamente ai cittadini» assicura Robert Nisticò, presidente dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa). «Stiamo valutando l’introduzione di nuovi modelli – aggiunge - che meglio rispondano alle esigenze del paziente in un’ottica di sostenibilità del sistema, prevedendo, ad esempio, un accesso precoce per terapie avanzate, in particolare laddove non vi siano alternative terapeutiche. In questo modo, i pazienti eleggibili potrebbero beneficiare delle terapie innovative senza ritardi e rallentare così la progressione di patologie oncologiche».
«Se consideriamo la valutazione annuale delle performance scientifiche dei 54 Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico italiani, il cui ruolo istituzionale è di coniugare attività assistenziale di ottimo livello qualitativo con un’attività scientifica di altrettanto livello – osserva ancora il presidente Foce - i dati più recenti dimostrano che un discreto numero di Irccs ha performance di elevato livello, ma purtroppo almeno la metà presenta valori di Impact Factor e H-index bassi e circa un terzo addirittura bassissimi. La metà degli Irccs, inoltre, risulta coordinatore di meno di dieci studi clinici e un terzo non ha svolto il ruolo né di coordinatore né di partner in sperimentazioni. Per quel che riguarda il numero di pazienti reclutati, un terzo degli Irccs riporta meno di cento pazienti all’anno e il 20% addirittura nessun paziente. Questi dati dovrebbero indurre una seria rivalutazione del riconoscimento di Irccs agli Istituti più carenti – conclude Cognetti - cui potrebbe conseguire un potenziamento di risorse disponibili per quelli più meritevoli».