Ritardi diagnostici fino a cinque anni per circa il 70 per cento dei pazienti con immunodeficienze primitive

L'incontro

Ritardi diagnostici fino a cinque anni per circa il 70 per cento dei pazienti con immunodeficienze primitive

di redazione

Il sospetto diagnostico di un'immunodeficienza primitiva deve essere affidato alle figure che vedono per prime il paziente, generalmente il pediatra di libera scelta o il medico di famiglia. Se si riscontra un primo sospetto, i pazienti devono essere inviati a Centri territoriali regionali, ambulatori pediatrici o hub periferici, per effettuare un primo test di tipizzazione immunologica. A completamento della diagnosi, il paziente deve essere indirizzato ai Centri di riferimento specializzati e network europei di riferimento per le malattie rare per l'avvio della terapia. A seguito della diagnosi e della definizione del trattamento, deve essere attivato un programma di continuità terapeutica.

Sono questi, in sintesi, i quattro punti del percorso diagnostico per le immunodeficienze primitive (Pid) indicati dagli esperti riuniti mercoledì 8 maggio a Roma, in un evento realizzato con il supporto non condizionato di Becton Dickinson.

Le Pid sono malattie rare di origine genetica che presentano alterazioni nel funzionamento del sistema immunitario causando infezioni e malattie quali disordini ematologici, danni d’organo irreversibili fino a insorgenza di tumori. Tra i principali sintomi che possono destare sospetto ci sono frequenti eventi infettivi, soprattutto a livello polmonare, forme allergiche complesse, anomalie dermatologiche e problemi neurologici. Si stima che in Italia la prevalenza sia di 5,1 casi ogni 100 mila abitanti per le circa 300 forme di Pid, anche se questo dato è fortemente sottostimato a causa dei ritardi diagnostici che, in alcuni casi, arrivano fino a quattro e cinque anni.

Le indagini di primo livello che valutano i livelli plasmatici di anticorpi e i diversi tipi di globuli bianchi presenti nel sangue «possono essere prescritti da pediatri e medici di medicina generale – osserva Raffaele Badolato, professore di Pediatria e direttore della Clinica pediatrica dell'Università di Brescia – mentre per le indagini di analisi immunologica più approfondita quale la citometria a flusso  e per le indagini genetiche, occorre ricorrere ai Centri di terzo livello».

Il ritardo diagnostico riguarda tra il 70 e il 90 per cento dei pazienti: un dato allarmante che ha pesanti ripercussioni non solo per i pazienti ma anche per i caregiver e per il Servizio sanitario nazionale. Secondo uno studio della Jeffrey Model Foundation, pazienti con una diagnosi acclarata pesano sul Sistema salute circa quattro o cinque volte meno di pazienti senza una diagnosi. 
«I costi totali per la cura delle immunodeficienze primitive – commenta Paolo Sciattella, professore del CEIS-EEHTA, Facoltà di Economia dell'Università di Roma Tor Vergata - si aggirano intorno ai 13-15 milioni di euro l’anno. A questi vanno aggiunti i costi relativi alle complicanze che richiedono assistenza ospedaliera». Uno studio condotto dall'EEHTA-CEIS ha evidenziato che ogni anno più di 2 mila pazienti con immunodeficienze primitive vengono ricoverati, generando una spesa media di circa 3 mila euro a paziente e una spesa complessiva di oltre 6 milioni di euro.
Inoltre, un paziente non correttamente o tardivamente diagnosticato, oltre a subire un peggioramento dello stato di salute, ha importanti ripercussioni sulla qualità di vita in termini di alti tassi di invalidità, frequenti astensioni dal lavoro, ripetuti ricoveri e visite mediche. Situazione che peggiora se si considerano le differenze di gestione tra i Centri di riferimento e il territorio, con conseguenti disomogeneità che aggravano l’outcome diagnostico.

Un ruolo strategico lo gioca comunque la collaborazione tra le Associazioni dei pazienti e le Istituzioni, per favorire lo sviluppo di un Piano nazionale di riferimento sulle Pid che sia in grado di rispondere ai reali bisogni dei pazienti e dei caregiver attraverso framework normativi più efficaci e attenti alle necessità del paziente e alla formalizzazione e divulgazione di buone pratiche. A cominciare da una diagnosi precoce. «Vivere con una immunodeficienza primitiva – commenta infine Filippo Cristoferi, responsabile External Affair e relazioni istituzionali dell'Associazione immunodeficienze primitive – è vivere “in attesa”. In attesa di una diagnosi personalizzata, di una terapia adeguata e tempestiva, di un percorso di presa in carico “integrale”. Ad attendere con te, c’è la famiglia e i caregiver, che offrono protezione e assistenza, si ha bisogno degli altri, si dipende, si cerca una compagnia. Si vive un percorso insieme. Difficile e avventuroso».