Al servizio sanitario servono 15 miliardi di euro per non aumentare il gap con il resto d’Europa

Il rapporto

Al servizio sanitario servono 15 miliardi di euro per non aumentare il gap con il resto d’Europa

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Immagine: Mehr News Agency, CC BY 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0>, via Wikimedia Commons
di redazione
Per il rapporto CREA Sanità 2023 rispetto ai partner dell’Unione Europea, il nostro Paese investe meno nella sanità. Cresce la spesa privata ed è a rischio l’equità del sistema. Investire nella tecnologia per affrontare la cronicità del futuro: i nuovi anziani saranno nativi digitali

Il livello della spesa italiana per la sanità è del 32 per cento inferiore rispetto a quello della media europea. E il divario, frutto di un prolungato periodo di ridotti investimenti, sembra difficile da colmare. Servirebbero infatti 15 miliardi di euro per portare la quota di PIL destinata alla sanità sui valori attesi in base alle effettive disponibilità del Paese, ricordando che una parte significativa del PIL non è disponibile perché impegnata per gli interessi sul debito pubblico (sono il 4,3% del PIL contro una media dell’1,8% negli altri paesi). Con 15 miliardi in più però si riuscirebbe solo a non aumentare il distacco, perché resterebbe comunque un rilevante gap fra la spesa sanitaria italiana e quella dei Paesi europei di confronto. 

Sulla base di questi calcoli, la situazione della sanità italiana non può che essere definita “critica”. Ed è così che viene descritta nel 19° Rapporto del C.R.E.A. Sanità, il centro di ricerca riconosciuto da Eurostat, Istat e Ministero della Salute, composto da economisti, epidemiologi, ingegneri biomedici, giuristi, statistici. 

I segnali preoccupanti, indicativi di un malessere profondo del servizio sanitario nazionale, sono sotto gli occhi di tutti. Non possono passare inosservate le manifestazioni di disaffezione verso il servizio pubblico delle due categorie più coinvolte nell’assistenza sanitaria: i pazienti e i medici. I primi si rivolgono sempre più al privato e i secondi, sempre meno attratti dall’idea di entrare a fare parte organica del servizio pubblico, scelgono di andare all’estero o di lavorare a “gettone”. 

La spesa privata

La disaffezione dei pazienti è testimoniata dalla continua crescita della spesa privata alimentata principalmente dal problema delle liste di attesa per le prestazioni non urgenti.  Nel 2022 la spesa sanitaria privata ha raggiunto i 40,1 miliardi, in aumento dello 0,6 per cento medio annuo nell’ultimo quinquennio.

Chi può permetterselo non ci pensa due volte e sceglie di curarsi pagando di tasca propria. Tra le famiglie più abbienti, quelle che ricorrono a spese sanitarie private, superano l’80 per cento. Ma, un dato che fa riflettere, anche chi non potrebbe permetterselo ricorre alla sanità privata. Tra le famiglie meno abbienti, la quota di chi rinuncia la servizio pubblico raggiunge il 60 per cento. In particolare, spendono per la salute le coppie anziane over 75 e le famiglie con tre o più figli. Il 72,7 per cento delle famiglie ha speso per acquistare farmaci, il 37,1 per cento per prestazioni specialistiche e/o ricoveri, il 26,2 per cento per prestazioni diagnostiche, il 23,7 per cento per protesi e ausili, il 21,2 per cento per cure odontoiatriche e il 13,4 per cento per attrezzature sanitarie.
Cresce anche il ricorso ai servizi delle strutture private accreditate: la quota di ricoveri nelle strutture accreditate sul totale è passato dal 24,8 per cento del 2017 al 27,1 per cento del 2022 mentre per gli interventi chirurgici si passa dal 33,4 per cento al 35,8 per cento. 

Il personale sanitario si è disamorato del servizio sanitario nazionale

Per la prima volta nella storia del servizio sanitario nazionale, il settore pubblico non è più la prima scelta dei professionisti.  Molti giovani, sempre meno disposti ad accettare condizioni di lavoro dure e poco gratificanti, preferiscono andare all’estero o lavorare a “gettone”. Oltre il 40 per cento dei camici bianchi non è soddisfatto della propria situazione professionale.   Ancora più grave è il fenomeno osservato nella categoria degli infermieri caratterizzata da una forte carenza di vocazioni. Le nuove leve sono in numero molto inferiore rispetto agli altri Paesi europei. Ai test di ingresso per la laurea in infermieristica hanno preso parte 22.957 candidati per 20.059 posti, con un rapporto domande/posti pari a 1,1.

«Riteniamo si tratti di una partita strategica per la sopravvivenza di un servizio sanitario nazionale universalistico: i professionisti sono e rimangono l’asset fondamentale del sistema di tutela della salute», commentano gli autori del rapporto. 

Tra il 2003 e il 2021 il numero di medici per 1.000 abitanti over 75 è passato da 42,3 a 34,6 (corrispondente a un gap di 54.018 unità) e il numero di infermieri da 61,0 a 52,3 (corrispondente ad un gap di 60.950 unità). Dietro gli “abbandoni” non ci sono solo ragioni economiche ma ci sono anche una crescente carenza di stimoli professionali e una organizzazione del lavoro penalizzante. 

La povertà sanitaria

Nel 2021 l’impoverimento dovuto alla somma delle spese sanitarie e delle “rinunce” a curarsi per motivi economici riguarda il 6,1 per cento dei nuclei famigliari (1,58 milioni di famiglie).  Il fenomeno della povertà sanitaria è in crescita di 0,9 punti percentuali rispetto al 2020 e di 1,5 rispetto al 2019. L’incidenza è superiore (e in crescita di 0,1%) nel Sud (8,2%, +0,1 p.p.), segue il Nord-Ovest con il 5,9 per cento delle famiglie (+2,0 p.p.), il Centro (5,0%, +1,0 p.p.) e il Nord-Est con il 4,0 per cento (+0,2 p.p.). 

Le spese sanitarie definite “catastrofiche”, quelle che superano il 40 per cento della “capacity to pay” delle famiglie, vengono sostenute dal 2,8 per cento delle famiglie residenti (731.489 nuclei),  un dato in aumento di 0,4 punti percentuali rispetto al 2019. Il Mezzogiorno continua a essere il più colpito: 4,7 per cento delle famiglie, in aumento del 1 punto percentuale nell’ultimo anno.

Le famiglie più esposte al rischio di spese “catastrofiche” sono quelle degli anziani over 75 (soli o in coppia) e le coppie con tre o più figli minorenni: in queste ultime, in particolare, pesano le delle cure odontoiatriche.

Proposte per un adeguamento del SSN alle nuove esigenze della società italiana

Ecco alcune proposte lanciate dagli esperti che hanno curato il rapporto per avvicinare il servizio pubblico ai bisogni dei pazienti e dei professionisti che lavorano al suo interno.
- Potenziare la comunicazione sull’importanza della prevenzione. 
 - Dove non si possano evitare interventi clinici, è necessario snellire i processi di presa in carico: lo sdoppiamento (territorio e ospedale) dei luoghi di erogazione, rischia di generare una duplicazione di interventi. È necessaria una presa in carico multidisciplinare, sviluppando livelli di integrazione fra professionisti.
 - Per la cronicità serve una vision che guardi al futuro del SSN attenta ai bisogni e ai comportamenti dei “millenials” che saranno i futuri anziani: una popolazione nativa digitale, che comunica quasi solo attraverso gli strumenti digitali, che compra praticamente tutto a distanza, valuta i servizi mediante le informazioni in rete, etc., più disposta verso alcune innovazioni quali l’Intelligenza Artificiale, ma forse anche meno critica nella analisi delle evidenze scientifiche. 
- Evitare l’aumento dell’iniquità, con la crescita dei casi di disagio economico (impoverimento e rinuncia alle cure) per la crescita dei consumi sanitari delle famiglie meno abbienti. 
- Superare la forzata distinzione fra “prestazioni integrative” e “sostitutive”, spesso utilizzata per stigmatizzare la crescita dei fondi sanitari; va ricordato che le prestazioni “integrative” per essere tali si vorrebbero escluse dai LEA. Ma la possibilità di avere la prestazione in tempi percepiti come ragionevoli e nel luogo prescelto, sono elementi sufficienti per definire una “integrazione” del servizio pubblico: non riconoscerla appare un negare la realtà. Se non si vogliono forme di sussidiarietà, si dovrebbe spingere per aumentare la risposta pubblica, e non cercare di limitarne le alternative. Se la detraibilità delle spese sanitarie può essere sulla carta considerata iniqua, nella misura in cui premia i maggiori consumi, ragionevolmente attribuibili alle famiglie più abbienti, gli sgravi legati ai premi versati a fondi collettivi, essendo oggi appannaggio fondamentalmente del ceto medio e di larga parte del lavoro dipendente, appaiono tutt’altro che iniqui; anzi, si possono ritenere una (parziale) compensazione del fatto che si tratta delle uniche fasce della popolazione a cui è, di fatto, impedito evadere. Andrebbe recuperato nelle azioni di governo il tema del rapporto fra SSN e fisco: è un tema che rimane centrale, nella misura in cui i sistemi di welfare universalistico richiedono sistemi fiscali efficienti, in assenza dei quali si generano inaccettabili sperequazioni. 
- Rivedere i criteri di Riparto del fondo sanitario, da alcuni anni sostanzialmente “congelati”, a parte il recente intervento per inserire dal 2023 il parametro della “deprivazione”, una modifica che ha spostato relativamente poco l’allocazione delle risorse. L’equità del criterio di riparto è messa in discussione dall’incidenza della spesa privata per prestazioni e da una quota di entrate regionali (le “entrate cristallizzate”), che vale il 5,3 per cento delle altre entrate proprie regionali, di cui una parte sono compartecipazioni. È una situazione non equa: nessuna Regione riesce a erogare i Lea con i soli fondi FSN e le entrate proprie, trasformate in imposte per il finanziamento della Sanità, garantiscono un gettito regionale difforme, anche in ragione delle diverse incidenze di residenti esenti. 
- Rivedere le regole che caratterizzano l’operatività delle aziende pubbliche, un aspetto che richiede un confronto e la formulazione di proposte operative: gli approvvigionamenti e la gestione delle risorse umane sono le aree strategiche che richiedono un più radicale adeguamento delle “regole”: da una parte per contenere i rischi di “amministrazione difensiva”, e dall’altra per evitare di trovarsi nell’impossibilità di poter reclutare il personale necessario per le posizioni “scoperte”. È ineludibile mettere in discussione anche il tema della natura delle Aziende Sanitare pubbliche, eventualmente ripensandola in una logica di efficientamento operativo.

- Le risorse umane sono l’aspetto più critico; per quanto concerne i medici, più di numero è un tema di incentivi per la copertura delle posizioni meno appetite e non è più procrastinabile l’adeguamento delle retribuzioni; per gli infermieri. Le retribuzioni sono in cima all’agenda, insieme a un serio problema di carenza. Poco o nulla è noto della consistenza dell’offerta di assistenti alle cure (in primis gli OSS) che si occupano dell’assistenza ai non autosufficienti. Vanno definiti i fabbisogni ed è urgente che si ridiscutano i criteri con cui si valutano, anche considerando il mutato quadro in cui è presente maggiore autonomia degli infermieri, rispetto ai quali ha senso declinare il fabbisogno di OSS/Assistenti per programmare le risorse per far fronte alle prese in carico domiciliari. 
- Sarebbe necessario che le decisioni sulla adozione delle tecnologie fossero prese in base a trasparenti e razionali criteri di valutazione, secondo il dettato dell’HTA. L’HTA è un assessment a supporto di una decisione che rimane politica, e che deve basarsi su una declinazione finale del “valore” delle tecnologie: quest’ultima dimensione è però sinora rimasta in secondo piano perché il servizio sanitario nazionale ha garantito la quasi totalità delle tecnologie sanitarie; tuttavia, la crescente scarsità di risorse rischia di far divenire il tema “sensibile” in quanto occorrerà adottare una logica di prioritarizzazione legata al valore sociale, la cui valutazione richiede una decisione politica, che comporta il coinvolgimento di tutti gi stakeholder del sistema sanitario.