I giocatori di rugby sono più a rischio di malattie neurodegenerative
Il problema è ben noto. Tanto che esiste un protocollo della federazione internazionale del rugby (World Rugby) per la prevenzione e la gestione dei traumi cranici. Per i giocatori di rugby le probabilità di ricevere botte alla testa durante una partita o un allenamento sono particolarmente alte. Lo stesso vale per altri sport di contatto, come la boxe o il football americano e in parte anche il calcio). E i pericoli maggiori li corrono i dilettanti che non possono contare sulle stesse misure di sicurezza dei professionisti.
Uno studio retrospettivo pubblicato sul British Medical Journal dimostra che tra i rugbisti professionisti l’incidenza di malattie neurodegenerative è più altra che tra la popolazione generale. E la colpa sembra proprio delle botte alla testa.
Lo studio ha incluso 412 ex giocatori di rugby scozzesi per lo più non professionisti che all’inizio dello studio avevano almeno 30 anni per i quali erano disponibili dati completi sulla salute e sul ruolo in campo. I giocatori sono stati abbinati per età, sesso e stato socioeconomico a 1.236 individui della popolazione generale nei panni di gruppo di controllo ed entrambi i gruppi sono stati monitorati per 32 anni.
Durante il periodo di monitoraggio nel gruppo degli ex rugbisti ci sono stati 121 morti (29%) in confronto a 381 (31%) nel gruppo di controllo. Gli ex giocatori di rugby vivevano più a lungo degli altri raggiungendo un’età media di quasi 79 anni rispetto a poco più di 76 nella popolazione generale.
Gli ex giocatori di rugby avevano anche tassi di mortalità più bassi fino ai 70 anni di età rispetto al gruppo di controllo, mentre dopo i 70 anni di età la differenza si annullava. Fin qui quindi il rugby sembrerebbe procurare vantaggi alla salute. Ma lo scenario cambia quando si analizzano le malattie neurodegenerative. La possibilità di ricevere una di malattia neurodegenerativa è più del doppio tra gli ex giocatori di rugby (47, 11,5%) rispetto al gruppo di confronto (67, 5,5%). Con rischi diversi a seconda del tipo di malattia. Per esempio, per gli ex rugbisti il rischio di una diagnosi di demenza era poco più del doppio, mentre quello del morbo di Parkinson era tre volte più alto e quello della malattia dei motoneuroni/sclerosi laterale amiotrofica 15 volte più alto. Il rischio è lo stesso per tutti i giocatori, indipendentemente dalla posizione in campo.
«Contrariamente ai dati della National Football League e del calcio, la nostra coorte di giocatori di rugby comprende in gran parte atleti dilettanti, sebbene partecipino a campionati a livello internazionale. Si tratta della prima volta che viene dimostrato che l'alto rischio di malattie neurodegenerative non è un fenomeno esclusivo degli atleti professionisti», scrivono i ricercatori.
Gli autori dello studio invitano a proseguire il monitoraggio della salute a cui normalmente sono sottoposti gli atleti anche nella fase del ritiro dallo sport.
«Potrebbero essere presi in considerazione interventi mirati alla mitigazione del rischio tra gli ex giocatori di rugby con episodi di traumi cranici già accumulati, inclusa la realizzazione di centri specializzati per la salute del cervello», suggeriscono i ricercatori.