Lavorare così è insostenibile. Giovani medici a rischio suicidio
«Sono esausto, sono spaventato e odio essere un dottore. Non era così che doveva andare. Seduto sul pavimento della nostra cucina, le lacrime mi scendono sulla faccia davanti alla mia partner stordita e preoccupata». Dopo il terzo giorno di fila in reparto, dopo aver certificato la morte di un paziente, faticato a prelevare il sangue da un innocente che non meritava di essere torturato da una mano tremolante, dopo avere combattuto contro uno sconosciuto sistema informatico per prescrivere un medicinale e paralizzato dal timore di poter danneggiare un paziente in caso di errori, il giovane dottore fresco di camice bianco ha tanti dubbi e una sola certezza: non vuole tornare in ospedale.
La testimonianza dell’anonimo medico inglese rilasciata al Guardian un anno fa è sempre attuale e viene ricordata in questi giorni sul Bmj dove è in corso un dibattito sulle insostenibili condizioni di lavoro all’interno del servizio sanitario inglese.
Rachel Clarke, medico specializzato in cure palliative, e Martin McKee, esperto di salute pubblica, hanno infatti appena firmato un editoriale intitolato “Il suicidio dovrebbe essere incluso tra le cause di morte associate al lavoro”. Il loro primo pensiero è per Rose Polge, la dottoressa di 25 anni del Torbay Hospital nel sud-ovest dell’Inghilterra che si è suicidata gettandosi in mare nel febbraio del 2016. La famiglia ha aperto in suo nome una pagina web per raccogliere fondi da dare in beneficienza dove si legge: «Un esaurimento a causa di lunghe ore di lavoro, l’ansia, la disperazione per il suo futuro in medicina e la notizia dell’imposizione dei nuovi contratti per i giovani medici hanno sicuramente contribuito a questa terribile e definitiva decisione».
L’appello dei due editorialisti del Bmj a prendere sul serio il rischio dei suicidi tra il personale medico degli ospedali britannici è ampiamente condiviso dai colleghi che si sono precipitati a confermare quella versione dei fatti con una serie di commenti.
C’è chi sostiene che ogni suicidio è potenzialmente una tragedia evitabile e invita i suoi colleghi, in caso di bisogno, a usare la App della associazione Samaritans, un numero di telefono che risponde alle richieste di aiuto.
E c’è chi non nasconde la propria indignazione di fronte alla scarsa attenzione rivolta al problema dei suicidi tra i giovani medici. «È così paradossale - si legge in uno dei commenti - che coloro che dedicano la loro vita a cercare di salvarne altre non ottengano il privilegio di vedere avviare delle ricerche su cosa si possa fare per salvare la loro».
Forse basterebbe ascoltare le dirette testimonianze dei medici alle prime esperienze per poter capire cosa c’è che non va. Come quella del ragazzo disperato che aveva scritto al Guardian nel 2016: «Mi aspettavo di essere gettato nel vuoto, ma mi aspettavo di essere sostenuto - scriveva al Guardian l’anonimo giovane medico nel 2016 - Mi aspettavo di trovarmi intorno una squadra ben rodata, che mi controllasse e che non mi lasciasse mai solo. Ma quella squadra non era lì…».
Un’altra giovane dottoressa, sempre coperta da anonimato, aveva consegnato poco prima il suo sfogo allo stesso giornale: «La mattina guidando verso l’ospedale le lacrime cadevano come pioggia. La prospettiva delle prossime 14 ore era troppo dura da sopportare. Ma a notte fonda tornando a casa non sentivo più nulla. È stata quella totale indifferenza che mi ha quasi ucciso. Ogni notte dovevo combattere contro me stessa per mantenere le mani sul volante. Verso la fine del primo anno da dottoressa avevo scelto il posto in cui intendevo uccidermi. Avevo già comprato tutto l’occorrente».
Leggendo una delle risposte all’editoriale del Bmj appare chiaro che le storie raccontate sui media non sono testimonianze isolate, casi drammatici ma poco rappresentativi di un fenomeno. «In ogni riunione nella mia scuola di medicina - scrive Alys Cole King psichiatra della Liaison Psychiatrist - ricordiamo e mostriamo gratitudine a quei compagni studenti di medicina che non sono più con noi. Ne abbiamo persi di più per i suicidi che per qualunque altra ragione».