Convivere con il tumore ovarico: le terapie che cronicizzano la malattia
La definizione corretta è “follow-up”. È una definizione concisa, puntuale, condivisa dalla comunità scientifica che ha una traduzione italiana altrettanto sintetica e chiara: “sorveglianza”. Ma con un unico termine non si riesce a descrivere il precorso di convivenza con un tumore ovarico in tutta la sua complessità, negli aspetti positivi e in quelli negativi. Il 19 per cento delle donne sottoposte a chirurgia radicale ha una recidiva in media (80% dei casi) dopo 2,6 anni dall’intervento. C’è però la possibilità (20%) che il tumore ritorni dopo un periodo di tempo molto più lungo. Nel frattempo viene avviata la fase della sorveglianza: dopo l’operazione e la chemioterapia inizia un lungo periodo di controlli a cadenze regolari, come la visita ginecologica, l’ecografia transvaginale, il dosaggio dei marcatori tumorali e le indagini strumentali come la Tac, quando necessarie.
«L’obiettivo è, appunto, sorvegliare la paziente per verificare che la malattia non sia ricomparsa. E, in questo caso, scoprirla rapidamente. Il rischio che si presenti una recidiva varia in base a moltissimi fattori, sia della paziente sia del tumore, come lo stadio e il tipo», spiega Gennaro Cormio, professore di Ginecologia oncologica all'Università Aldo Moro, direttore di Ginecologia oncologica dell’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari.
Cosa vuol dire “cronicizzare”
Quando il tumore viene tenuto sotto controllo per un lungo periodo di tempo si parla di cronicizzazione della malattia, una condizione sempre più diffusa grazie ai progressi della medicina. Una condizione auspicabile perché significa, molto banalmente, vivere più a lungo. Ma è una condizione stressante per chi la sperimenta perché prima di ogni controllo, inevitabilmente, torna la paura.
Antonia, una delle voci del libro bianco sul timore ovarico, convive con l’ansia degli esami periodici da circa venti anni, un periodo di tempo segnato dall’alternanza tra lunghe fasi di remissione e recidive.
«Cronicizzare significa poter mantenere una condizione di remissione della malattia per anni, seppure seguendo costantemente una terapia. Nel tumore ovarico questo è un grandissimo risultato. L’obiettivo è prolungare il più possibile “l’intervallo libero da malattia”, come diciamo noi oncologi. Attualmente seguiamo pazienti in trattamento da 7-8 anni: intervalli di remissione impensabili qualche anno fa», commenta Cormio.
Le terapie di mantenimento
La possibilità di cronicizzare il tumore ovarico è emersa negli ultimi dieci anni e si deve ai progressi ottenuti nella cosiddetta “terapia di mantenimento”, il trattamento prescritto alle pazienti dopo l’intervento chirurgico e la chemioterapia con l’obiettivo di ridurre il rischio di recidiva.
«Questa terapia si basa su due tipi di farmaci biologici, i PARP inibitori e un anti-angiogenico - spiega Emanuele Naglieri, oncologo del'Unità operativa di oncologia dell’Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari - che possono essere utilizzati anche in combinazione e che vengono scelti in base alle caratteristiche genomiche del tumore. Queste cure vengono protratte per due o tre anni dall’operazione e, in assenza di recidive, vengono poi sospese»,
La terapia di mantenimento è sempre personalizzata. I PARP inibitori, per esempio, sono particolarmente efficaci in caso di mutazioni dei geni BRCA. Quasi il 50 per cento delle pazienti con mutazioni BRCA che assume questa terapia di mantenimento continua a essere libera da recidive a quattro anni dall’intervento e potrebbe essere considerata guarita.
«Se il tumore si ripresenta - spiega ancora Naglieri - si ricorre a una seconda linea di trattamento. In questo caso l’obiettivo diventa quello di cronicizzare la malattia. E i farmaci, di conseguenza, vengono assunti per un periodo indefinito: fin quando la tossicità, che ogni terapia porta inevitabilmente con sé, non sia più sostenuta o fin quando non vi sia una nuova progressione, segno che quel farmaco non è più efficace. In media queste terapie riescono a ritardare di molti mesi la comparsa di recidive. Non solo: circa un 20 per cento delle pazienti non ha ancora avuto una progressione di malattia a distanza di cinque o più anni e la comunità scientifica si sta chiedendo se anche per loro sia possibile cominciare a parlare di guarigione».
L’importanza dell’aderenza terapeutica
Secondo i dati dell’indagine ACTO Italia ETS “Il percorso della paziente con carcinoma ovarico” 2023, il 27 per cento delle pazienti ha seguito una terapia di mantenimento.
I benefici di queste terapie, sia di prima linea sia di seconda linea, dipendono in gran parte dalla continuità assistenziale e dall’aderenza alla cura. I risultati della ricerca ACTO sono incoraggianti: la maggior parte delle donne dichiara di assumere i farmaci orali a domicilio con costanza ed è raro che si dimentichino di assumere il farmaco (36%) o che rimangano senza le medicine prescritte (24%) oppure che non le assumano nel modo corretto (24%).
Per gestire meglio una malattia cronicizzata, comunque, le donne avrebbero bisogno di maggiori informazioni sulle terapie complementari (43%), di maggior confronto con altri pazienti (31%) e di maggior supporto a livello psicologico (28%).