Gli scimpanzé muoiono per i nostri raffreddori. Come prevenire i casi di zoonosi inversa
Accumulo di liquido nel torace e intorno al cuore, tessuto polmonare ispessito e di colore rosso scuro, lesioni nei polmoni. L’autopsia non lascia dubbi: Stella è morta per una forma grave di polmonite. A causare l’infezione, come dimostra il test molecolare, è stato il metapneumovirus umano. Un risultato del tutto inatteso per Tony Goldberg, il ricercatore della University of Wisconsin–Madison che ha condotto l’esame post-mortem, visto che nella comunità a cui Stella apparteneva quel tipo di virus non è diffuso, o almeno non dovrebbe esserlo. Perché il patogeno in causa, come esplicitato nel nome, è un virus umano e Stella è uno scimpanzé. Nella nostra specie il metapneumovirus provoca ordinarie infezioni respiratorie, ma nei primati nostri parenti è in molti casi mortale.
Lo si è visto nell’epidemia che ha colpito la comunità di scimpanzé del parco nazionale di Kibale in Uganda a cui Stella apparteneva. Il 12 per cento dei suoi membri, Stella compresa, è morto di polmonite causata da metapneumovirus umano. Di conseguenza sono morti anche molti altri animali perché rimasti orfani troppo presto e incapaci di sopravvivere senza i genitori.
Non è la prima volta che accade. Nella comunità di scimpanzé di Kanyawara, sempre all’interno del parco di Kibale, ad esempio, da più di 35 anni gli agenti patogeni respiratori come il rinovirus umano C e il metapneumovirus umano sono i principali responsabili delle morti premature degli scimpanzé, rappresentando quasi il 59 per cento dei decessi per una causa nota.
Fenomeni di questo tipo sono chiamati “zoonosi inverse”. L’agente patogeno passa infatti dall’uomo all’animale, un percorso opposto a quello delle zoonosi “tradizionali” che consistono in infezioni che si trasmettono dall’animale all’uomo (toxoplasmosi, infezioni alimentari, virus zika, tigna, rabbia, malattia di Lyme ecc…).
I casi noti di zoonosi inversa sono svariati: dai molluschi contaminati con il virus dell’epatite A, ai ghepardi colpiti dall’influenza A, ai cani selvatici africani affetti dalla giardia duodenalis, agli elefanti asiatici positivi alla tubercolosi.
Tra tutti gli animali, però, le grandi scimmie, per ovvie ragioni di vicinanza evolutiva, sono più vulnerabili alle malattie trasmissibili umane. Un virus che nella nostra specie si manifesta con starnuti e mal di gola può arrivare decimare una comunità di scimmie perché prive di difese immunitarie contro un patogeno sconosciuto. A questo preoccupante fenomeno Nature on line ha dedicato un lungo articolo che in sostanza spiega cosa fare per prevenire che gli scimpanzé muoiano per colpa dei nostri raffreddori. Bisogna partire dalle scuole elementari e vedremo il perché.
I casi di contagio dall’uomo alle scimmie
Nel 1968 lo scimpanzé David Greybeard, il preferito dalla celebre etologa britannica Jane Goodall, morì a causa di un’infezione respiratoria, probabilmente una polmonite. La scienziata si era convinta che il virus fosse arrivato dall’uomo, ma non aveva prove per dimostrarlo.
Del resto nel 1966 la stessa Goodall aveva registrato 10 casi di infezioni di poliovirus tra le scimmie che vivevano accanto a una comunità umana nella quale poco prima era scoppiata un’epidemia di polio e aveva osservato nel corso degli anni molte scimmie starnutire o tossire come se avessero il raffreddore.
I sospetti di Goodall sono diventati certezze solo nel 2008 quando uno studio basato su indagini molecolari ha dimostrato che i virus umani sono stati responsabili per circa un decennio di gravi epidemie di malattie respiratorie tra gli scimpanzé nel Parco Nazionale Taï, in Costa d’Avorio.
Era la prova che i virus umani possono costituire una minaccia per la sopravvivenza di intere comunità di grandi scimmie già a rischio di estinzione a causa di problemi globali di cui è responsabile sempre l’uomo, cambiamento climatico in primis.
Se tra i gorilla di montagna, di cui restano un migliaio di esemplari, scoppiasse un’epidemia di influenza umana, l’intera specie potrebbe sparire dal pianeta. È un rischio concreto a cui si è andati molti vicini. Sono stati già osservati infatti 33 casi di trasmissione di virus umani a scimpanzé e gorilla di montagna tra cui morbillo, metapneumovirus e streptococco pneuomoniae.
Anche il passaggio da Sars-Cov-2 ad altri mammiferi, scimmie comprese, è stato ampiamente documentato.
La mania di toccare con mano
Come fanno le scimmie a infettarsi con virus umani? I turisti hanno le loro colpe. Nel 2015 l’International Union for Conservation of Nature ha pubblicato le linee guida per i visitatori dei parchi naturali. Le regole sono chiare: mantenere una distanza di almeno 7 metri dagli animali, indossare la mascherina, rinunciare al tour in caso di malessere (ma chi mai lo farebbe dopo aver speso un mucchio di soldi per il viaggio). Ma queste regole vengono rispettate? Sembra di no. I ricercatori che hanno monitorato il comportamento dei visitatori in 53 escursioni con i gorilla nel Parco nazionale di Bwindi in Uganda hanno constatato che quasi sempre i turisti trasgrediscono il protocollo: la regola dei 7 metri viene violata quasi in ogni occasione e i turisti a volte arrivavano a meno di 3 metri dagli animali. Si possono anche guardare i video su YouTube per rendersi conto che le distanze non sono quasi mai rispettate. Su 282 video, il 40 per cento raffigura visitatori vicinissimi agli animali e a volte addirittura a contatto fisico con qualche esemplare.
Nel 2020 Darcey Glasser, un biologo all'Hunter College della City University di New York, si è “infiltrato” in 101 escursioni di scimpanzé nel parco di Kibale e ha raccolto in uno studio tutte le occasioni di contagio osservate: i turisti hanno tossito nell’88 per cento delle escursioni, hanno starnutp nel 65 per cento, hanno urinato nel 37 per cento, hanno mangiato nel 17 per cento e hanno sputato nel 13 per cento. Non solo: i turisti mentre camminano toccano gli alberi in media 230 volte per escursione. Tutti toccano tutto. E così facendo seminano nell’ambiente decine di potenziali fomiti, oggetti inanimati che se contaminati possono trasferire una malattia a un essere vivente.
Non è tutta colpa dei turisti: anche la scuola c’entra
Quali sono i virus umani che colpiscono le scimmie? Alcuni scienziati hanno osservato che nella maggior parte dei casi i patogeni umani che tipicamente infettano le grandi scimmie sono gli stessi che circolano nelle scuole dell’infanzia di tutto il mondo.
Questi virus che fanno star male i bambini sono presenti anche nei loro genitori senza provocare alcun sintomo. Potrebbe darsi quindi che gli adulti che lavorano nelle riserve, scienziati o guardiani, siano a loro insaputa una fonte di infezione per gli animali.
Un gruppo di ricercatori della University of Wisconsin–Madison ha messo alla prova questa ipotesi collezionando per tre anni, tra il 2029 e il 2021, campioni di mucosa nasale di 203 bambini delle scuole primarie situate nelle vicinanze del parco nazionale di Kibale. Tra questi c’erano 31 figli di impiegati del parco. Il team ha raccolto anche campioni fecali di 55 scimpanzé per testare l’eventuale presenza di agenti patogeni umani e ha combinato questi dati con le osservazioni sulla salute degli animali riportate assistenti sul campo. I risultati, attualmente in fase di revisione, hanno confermato l’associazione tra bambini malati, adulti asintomatici e zoonosi inversa negli scimpanzé. Tutti gli agenti patogeni respiratori responsabili di un’epidemia di scimpanzé a Kibale erano presenti nei bambini che vivevano nelle vicinanze.
Non stupisce quindi che tra marzo e settembre 2020, durante il lockdown e la chiusura delle scuole, sia sia osservato un calo “straordinariamente evidente” delle infezioni tra gli animali. Una prova in più del legame tra infezioni nei bambini e infezioni nelle scimmie. Potenziare nelle scuole l’educazione all’igiene per ridurre la trasmissione dei virus potrebbe essere vantaggioso per i bambini e per gli animali. Bambini sani, scimmie sane.