La terapia genica per far sparire il dolore che non passa

Addio oppiodi?

La terapia genica per far sparire il dolore che non passa

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Immagine: yourgenome / Flickr (https://www.flickr.com/photos/yourgenome/31332923263)
di redazione
Una procedura innovativa basata sull’editing genetico potrebbe risolvere il problema della dipendenza da oppioidi in chi soffre di dolore cronico. Si tratta di silenziare momentaneamente un gene coinvolto nella sensazione dolorosa. Nei topi ha procurato sollievo per mesi senza effetti collaterali

Dalla lombalgia, alla sciatica, alle neuropatie, all’artrosi. Ma anche ai dolori della chemioterapia.  Una vasta gamma di condizioni che procurano sofferenze croniche potrebbe essere interessata da una innovativa terapia analgesica che si candida a valido sostituto degli oppioidi. I ricercatori dell’Università della California San Diego hanno sviluppato una terapia genica capace di eliminare il dolore per mesi senza il rischio di generare dipendenza dai farmaci. Il sollievo si ottiene silenziando temporaneamente un gene coinvolto nella sensazione del dolore. La nuova terapia, descritta su Science Translational Medicine, sfrutta la tecnica di editing genetico Crispr per riprodurre artificialmente una condizione sperimentata da chi è affetto da una rara mutazione genetica. 

La mutazione in questione disattiva una proteina chiamata NaV1.7 coinvolta nella trasmissione del dolore attraverso il midollo spinale. 

Le persone che posseggono questa mutazione non provano dolore, possono toccare un oggetto bollente senza scottarsi o procurarsi una ferita senza neanche accorgersene. 

I ricercatori hanno quindi pensato di poter introdurre una momentanea modifica genetica di quel tipo.  E lo hanno fatto usando lo strumento di editing Crispr associato però a una diversa versione dell’enzima Cas9, il cosiddetto “dead Cas9” (dCas9) che non ha la capacità di tagliare il Dna ma solo di legarsi a un gene target per bloccarne l’espressione. I ricercatori hanno usato questa terapia genica temporanea sul gene che codifica per la proteina NaV1.7 

«Non si sta eliminando alcun gene, quindi non ci sono modifiche permanenti al genoma. Non si vuole far perdere in modo permanente la capacità di provare dolore. Una delle maggiori preoccupazioni con l'editing genetico CRISPR sono i potenziali effetti fuori dal bersaglio. Una volta tagliato il Dna, il gioco è fatto. Non si può tornare indietro. Con il dCas9, invece non si sta facendo qualcosa di irreversibile», ha spiegato Ana Moreno, UC San Diego Jacobs School of Engineering, a co-autore dello studio. 

Gl scienziati hanno testato la nuova terapia genica sui topi affetti da malattie infiammatorie e dolore indotto con la chemioterapia. Gli animali che avevano ricevuto iniezioni spinali del “farmaco” hanno mostrato una soglia del dolore più alta rispetto ai topi che non avevano ricevuto la terapia genica. Gli animali trattati con la nuova tecnica reagivano più tardi agli stimoli dolorosi e passavano meno tempo a leccarsi le ferite rispetto al gruppo di controllo. 

Gli effetti antidolorifici della terapia genica erano ancora presenti 44 settimane dopo l’iniezione nei topi con malattia infiammatoria e 15 settimane nei topi con dolore causato dalla chemioterapia. 

Gli animali trattati non hanno mostrato perdita di sensibilità o difficoltà motorie di alcun tipo. 

Ora i ricercatori stanno valutando la possibilità di ottenere gli stessi risultati promessi da Crispr-dCas9 con un altro sistema di editing genetico considerato più sicuro. Si tratta di uno strumento precursore di Crispr chiamato “nucleasi a dita di zinco”. Anche in questo caso l’obiettivo è quello di legarsi al gene target per bloccare l’espressione della proteina NaV1.7. Questa tecnica usata sui topi ha ottenuto gli stessi risultati dell’altra. I ricercatori la preferiscono perché utilizza proteine costruite a partire da proteine umane. Il sistema Crispr invece usa proteine che derivano da batteri e che possono causare una risposta immunitaria. Verranno comunque avviate sperimentazioni parallele con entrambe le soluzioni con la speranza  di poter partire con i trial clinici sugli umani entro un paio d’anni.